CdF-Mirafiori

Lavoro

La disponibilità globale di forza lavoro e la differenziazione dei sistemi di valorizzazione sono l’infrastruttura di un mondo sociale in cui appare particolarmente difficile l’organizzazione dei lavoratori e la ricomposizione dei loro interessi. Nel capitalismo globalizzato lo Stato, le Agenzie sovranazionali e gli organismi della governance assumono un ruolo attivo di organizzatori di tale frammentazione sociale, territoriale e produttiva. Ci pare dunque che un approccio concreto alle questioni del lavoro debba necessariamente tenere conto dello sviluppo capitalistico a livello globale: lo smantellamento negli ultimi trent’anni dei sistemi produttivi fordisti europei e la loro ricollocazione in aree prima marginali dal punto di vista geopolitico rappresentano l’aspetto fondamentale di quella ristrutturazione capitalistica il cui processo, con le crisi finanziarie degli ultimi anni, ha subito una brusca accelerazione.

Mentre nei paesi emergenti si va sviluppando un “fordismo militarizzato”, cui si contrappongono prime forme di organizzazione operaia che riescono a strappare aumenti salariali e riduzioni dell’orario di lavoro attraverso dure lotte locali, il problema energetico, la questione dei flussi migratori e la guerra quotidiana combattuta con le armi finanziarie collocano la contraddizione capitale-lavoro al fondo delle dinamiche geopolitiche: guerre a bassa intensità, conflitti locali, deportazioni, occupazioni militari di territori oppressi rientrano nei mezzi che la governance globale mette in atto per gestire la forza lavoro e garantire l’accumulazione capitalista.

Nella regione europea la gestione della forza lavoro rivela un sistema iper-articolato di condizioni, status, garanzie differenziali. Appare chiaramente che per vasti gruppi sociali l’espulsione dal mercato del lavoro non è congiunturale, ma si avvia a essere una conseguenza e una condizione strutturale di lungo periodo della ristrutturazione capitalistica. Si creano dunque diversi livelli di inclusione nella cittadinanza, in cui assume un ruolo attivo il cosiddetto “workfare” – cioè i dispositivi messi in atto dalle politiche sociali – che svolge varie funzioni a seconda dei gruppi cui si rivolge: etnicizzazione, responsabilizzazione dei singoli, controllo moralistico, assoggettamento pauperistico-caritatevole, ecc.

A seconda dei vari livelli di valorizzazione della forza lavoro, il capitale organizza situazioni differite di alta produttività, intrattenimento per gruppi improduttivi, “zone franche” di degrado e abbandono. Politiche pubbliche, come il Job Act e la riforma dell’istruzione, mostrano quanto, anche in Italia, la ristrutturazione capitalistica richieda una parallela riorganizzazione dei servizi sociali impegnati nella gestione del confine mobile tra circuito della marginalità produttiva e circuito della marginalità improduttiva. L’ideologia che sostiene queste trasformazioni è quella della “piena impiegabilità”: studenti nel periodo gratuito di stage, disoccupati senza casa seguiti dai servizi sociali, la massa generalizzata dei giovani dell’ex-servizio civile ora “servizio per la patria”, tutti devono guadagnarsi “crediti” di sopravvivenza mostrando la loro totale disponibilità al lavoro gratuito.

Nel globalismo del capitale, commisurato al forzato localismo della forza lavoro, la ristrutturazione capitalista è stata una forma di espulsione dalle fabbriche dei gruppi meglio organizzati di classe operaia, secondo una dinamica ambivalente per cui pezzi molto avanzati del movimento operaio in fabbrica rivendicavano l’uscita da un lavoro nauseante mantenendo forme di reddito garantito. La fabbrica è nociva, lavorarvi dentro fa ammalare e morire: uscire dalla fabbrica continuando a rivendicare reddito sembra una possibilità palpabile nei momenti di più alta organizzazione del proletariato. Ma i padroni riescono a rifunzionalizzare anche questa forma di “rifiuto del lavoro”: la deriva concertativa del sindacato e lo scemare delle prospettive rivoluzionarie portano le nuove classi dirigenti a usare i diritti come strumento di controllo, assorbimento del conflitto, rottura dell’unità e del potere accumulato dalle avanguardie operaie. La terziarizzazione si inscrive in questa dinamica iniziata a partire dagli anni ’70: i 40.000 colletti bianchi di Torino che manifestarono contro gli scioperi dopo cinque anni sarebbero stati tutti espulsi dalla produzione. La loro ricollocazione tra terziario, indotto, uffici e disoccupazione fu differenziale e nessuna unità tra loro fu possibile.

Smantellato il fordismo non viene meno la nocività, che invece è spostata sull’organizzazione della società nel suo complesso, laddove il terziario si innerva nel tessuto post-industriale. Essa non riguarda più l’oggettività dell’interazione tra i fattori della produzione (di cui la salute del lavoratore è solo un attributo), ma il rapporto contraddittorio tra le soggettività e l’organizzazione del capitale.

Le “bolle formative” portano alle estreme conseguenze la scelta strategica di diffondere un terziario scolarizzato e iper-scolarizzato estraneo ai processi di organizzazione e contropotere accumulato in fabbrica. È su questo gruppo sociale che attecchisce il modello organizzativo dell’odierna flessibilità occupazionale, votata a una paradossale ma effettiva “permanente precarietà”, oramai diffusa in ogni settore del pubblico come del privato.

I lavoratori del terziario sono tuttavia un gruppo frammentato e differenziato per condizioni materiali di produzione e riproduzione. D’altra parte, come hanno messo in luce numerose analisi negli ultimi anni, esiste un mondo prettamente “operaio” che viene rubricato nel settore terziario ma è sottoposto alle ferree dinamiche di estrazione di plusvalore tipiche di un tessuto produttivo capillarmente diffuso, a matrice corporativa, e spesso caratterizzato da forme estreme di caporalato, ricattabilità istituzionalmente costruita, devastazione della salute e della vita. Le lotte di questi anni nel settore della logistica e nel settore agroalimentare hanno reso evidente la fitta trama di interessi che lega il mondo delle cooperative locali e il mondo dell’impresa transnazionale; la capacità di organizzazione degli oppressi, raccolta dal sindacalismo conflittuale, ha chiaramente mostrato agli occhi del movimento la connivenza tra settori socialdemocratici della classe dirigente e grandi interessi della finanza.

Va superata, anche analiticamente, quella scissione tra “garantiti” e “non garantiti” che il sindacalismo istituzionale continua a riprodurre con la mera sussistenza concertativa del suo ceto politico. L’essersi imbarcati come cogestori in forme di violenta ristrutturazione capitalista – come la riforma della contrattazione nazionale o lo sviluppo del welfare aziendale accodato alle grandi fondazioni finanziarie dei padroni – sottolinea la putrescenza di queste organizzazioni.

Il mondo del lavoro nei servizi, nella cura, nella riproduzione necessita di un’indagine che scavi non solo nelle condizioni materiali dei lavoratori, ma anche nelle condizioni di possibilità, di legittimazione e di consenso di una simile tecnologia di governo delle politiche del lavoro. Si tratta di indagare le relazioni tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, i modi di riproduzione della forza lavoro, l’interazione tra lavoro retribuito e non retribuito. In questo senso possono tornare utili anche gli strumenti messi a disposizione dalle analisi sul paradigma consumista “emotivo-esperienziale”, volto a criticare una semantica che a un generale servizio statale come “merce” sottoposta alla logica del mercato, consumabile da “utenti”, affianca il consumo (necessariamente) frenetico di merci come esperienze di vita, estensioni della propria personalità ed emotività, producendo il “brand” non come marchio sovrapposto alla realtà, ma come esso stesso realtà e “cultura”.

In questo senso ciò che appare significativo analizzare è anche come la semantica del “marketing esperienziale” si sia potuta declinare all’interno delle stesse procedure di selezione del lavoro e di gestione delle politiche aziendali e istituzionali rivolte all’implementazione del paradigma dell’employability. Qualità (e negatività) emotivo-comportamentali, unitamente a una retorica della performatività (creatività, spirito d’iniziativa, adesione ai “valori” e alla “visione” aziendale, ecc.), giocano un ruolo centrale nelle dinamiche di assunzione, premialità, carriera e conferma all’interno dei contesti lavorativi. Ciò a discapito delle devianze e dei disagi più o meno macroscopici, sempre più relegati a dimensione “non funzionale” del “corpo produttivo”. D’altra parte, è altrettanto necessario indagare i processi bioeconomici che oggettivano il “corpo al lavoro” promuovendo e incentivando la soggettivazione (coinvolgimento/complicità) dello stesso.

In generale il focus dell’analisi va posto su: interazione tra diverse zone di valorizzazione capitalistica del lavoro e conseguenti paradigmi istituzionali di riproduzione della forza lavoro; interazione tra forme di “messa a lavoro” e possibilità di organizzazione antagonista; eventuali ed embrionali forme di “rifiuto del lavoro” che possono emergere dai contesti ad alta valorizzazione capitalistica, tra i lavoratori del sottobosco della produzione e riproduzione sociale.

Sotto-categorie e focus di specifici percorsi di ricerca e/o ricerca/azione

  • Spontaneità e organizzazione: contesti e lotte del lavoro post-fordista.
  • Rapporto dalle fabbriche: microinchiesta sul lavoro operaio di nuova generazione.
  • Proletariato e mondo del lavoro: analisi delle nuove forme di composizione sociale.
  • Sottoproletariato e industria: inchiesta sulle nuove forme di sfruttamento della marginalità.
  • Genealogia, costruzione dei saperi esperti e dei rapporti di forza della “presa” bioeconomica sul sociale.
  • Genealogia del branding e “capitalismo cognitivo”: selezionare, parcellizzare, controllare il “capitale umano”.
  • Microfisica della precarizzazione: saperi/poteri bio-manageriali all’opera.
  • “Soggettivazioni oggettivate”: dal counselor al responsabile di reparto Esselunga.
  • Soggettivazioni resistenti: frammenti di coscienza di classe precaria.

Ulteriori sottosezioni

  • Recensioni e divulgazione di pubblicazioni, ricerche, eventi.
  • Divulgazione e creazione di rete con associazioni e gruppi impegnati in movimenti critici e di lotta “dal basso”.
  • Collegamento con organizzazioni di lavoratori, sindacati, gruppi informali di rappresentanza dei lavoratori.

 

 

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