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Editoriale

È ipotesi di lavoro di questa rivista che le scienze umane siano ancora oggi, anche e soprattutto, un modo del potere. Un potere molto più pervasivo e “realizzato” nell’articolazione di dottrine e pratiche, soggetti e istituzioni, ruoli e funzioni sociali. Basti pensare al ruolo della “professionalità” che sembra mettere d’accordo tutti in questi ultimi tempi. Operatori e tecnici di scuole diverse, uomini politici, amministratori e intellettuali, concordano senza esitazioni sulla necessità di dare grande importanza alla professionalità in ogni campo. Ma di quale professionalità si sta parlando?

Quella che costruisce una vera e propria rete di controllo e di omologazione delle competenze e delle esperienze, significativamente prescelta come passaporto per l’accesso al mondo del lavoro, sempre più pretesa e sempre meno maturata?

O quella che si erge sempre più a linguaggio della scienza, non potendone diventare il motore, cosicché, nell’era mediatica della comunicazione, caratterizzata dalla maggiore importanza del linguaggio rispetto ai benefici per l’uomo, la scienza rischia di esprimersi solo con la “professionalità” e di configurarsi oggi più che mai come una forma “specializzata” del suo esercizio?

Dopo l’ampio dibattito degli anni ’60 e ’70 sul senso dell’azione professionale in relazione con le scelte politiche e i modelli di vita sociale possibili, che condussero al ritiro della delega ai tecnici e ai professionisti in particolare nel settore della salute dei lavoratori e, di riflesso, portarono all’accesso all’istruzione superiore e quindi alla progressiva “professionalizzazione” delle classi subalterne, la professionalità sembra ora riacquisire uno statuto indipendente.

Negli anni ’60 e ’70, sospinto dall’azione di forti movimenti di massa, si sviluppò un dibattito ampio sul rapporto tra l’azione professionale, le scelte politiche e i modelli di vita sociale possibili: la conquista di spazi sempre più ampi di potere da parte delle classi subalterne, in particolare nel settore della salute dei lavoratori, produsse un “ritiro della delega” ai tecnici e ai professionisti. Chi, nei quartieri proletari, in fabbrica, nelle istituzioni, era sempre stato trattato come un “oggetto” iniziava ora a riappropriarsi collettivamente della capacità di capire, organizzare, decidere; sulla spinta dell’azione organizzata e di massa dei lavoratori e degli sfruttati, anche chi, come i medici, fino ad allora era stato visto come un semplice “tecnico”, era costretto a riconoscere la non-neutralità del suo sapere e a schierarsi politicamente nello svolgimento della sua azione professionale. La chiusura di quella stagione progressiva, insieme alla chiusura di spazi “democratici” e alla progressiva “professionalizzazione” delle funzioni tecniche, ha restituito alla professionalità uno statuto che appare come indipendente, neutrale, al di sopra delle parti. Perché ciò stia accadendo è una delle domande a cui tenterà di rispondere il lavoro della rivista.

Per alcuni, la caduta delle speranze in una trasformazione radicale della società ha smorzato l’entusiasmo dei sostenitori delle grandi innovazioni nel campo dei servizi sanitari e sociali, della scuola e dell’informazione. Per altri, lo sviluppo tecnologico degli ultimi anni rende inutile ogni dibattito che non parta da un alto livello di professionalità “in sé”. Per altri ancora, la “politicizzazione”, intesa come contrattazione spietata tra i partiti politici per porre a capo dei diversi servizi e istituzioni uomini a loro congeniali, ha prodotto una tale caduta di efficienza e qualità tecnica che il riferimento a una professionalità “indipendente” è divenuto indispensabile.

Benché quasi unanimi, il consenso e l’entusiasmo per il professionismo appaiono fragili. Passata la stagione nella quale le professioni si sono caricate della responsabilità di affrontare ogni aspetto della sofferenza individuale e collettiva, appare nuovamente urgente che il problema dei contenuti e dei metodi, del senso e degli effetti delle professionalità ritorni in discussione. Specialmente quando le tecniche devono essere valutate attraverso il tipo e la qualità delle risposte che offrono ai bisogni più gravi e diffusi della popolazione. Si torna oggi a parlare di un certo “specialismo di ritorno”, cioè di un modo tutto settoriale di affrontare i problemi della società. Uno specialismo che sembra aver smarrito la lezione delle grandi innovazioni scaturite dalle lotte per un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, per un’emancipazione sociale delle “minoranze” escluse dal consorzio civile, per una società finalmente affrancata dal dominio del capitale.

Per questo riteniamo che il compito di ogni intellettuale e tecnico immerso nelle contraddizioni del mondo sociale e del proprio lavoro, sia quello di fornire strumenti di analisi e di lettura del reale in grado di mantenere aperte queste contraddizioni. E di contribuire, se possibile, anche attraverso lo smascheramento del proprio ruolo e della propria funzione tecnica o intellettuale, a saldare questa pratica con altre forme di lotta nel tentativo di una “ricomposizione sociale” e politica di queste esperienze per una trasformazione reale della società e per la fondazione di una scienza nuova al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni.

Nel corso degli anni ’60, in un contesto culturale diverso da quello attuale, già si pose questa problematica.

Il dibattito critico sulla scienza e sulle tecniche precedette, stimolò e arricchì l’esplosione politica del decennio successivo. In un mondo che si riteneva in via di profondo cambiamento culturale e politico, si svilupparono in ogni campo esperienze di lavoro nuove che sottoposero a revisione, spesso problematica, le tecniche tradizionali. Oggi che lo sguardo sul significato politico di quell’epoca sembra sopito, cresce invece l’interesse per ciò che fu acquisito sul piano tecnico in quello straordinario contesto di novità e accelerazione dei processi politici. Ciò sembra declinarsi soprattutto nella ricerca di ciò che avviene oggi dentro e fuori i servizi e le istituzioni eredi di quella stagione politica, nelle pratiche e nella realizzazione concreta di progettualità in essere.

Ci pare necessario in tal senso che, esaurita la spinta propulsiva delle vecchie avanguardie intellettuali e tecniche – protese nostalgicamente oggi a riproporre contenuti ormai svuotati di senso se confrontati con una realtà in profondo cambiamento o colpevolmente complici di quel degrado culturale, istituzionale e sociale che è ormai radicato in questo paese da più di un trentennio – debba tornare con urgenza la capacità di esercitare quella forma di responsabilità politica che vede nell’inchiesta sociale il mezzo più idoneo a fornire ulteriori strumenti di analisi dell’esistente in ogni ambito della vita sociale.

Consapevoli che tornare al lavoro di inchiesta, cercare e scoprire quel “potere” capace di celarsi in ogni punto della vita istituzionale e sociale, ma anche di estinguersi in nessuno, è in fondo già sfidarlo. Nuovamente.

Questo per noi definisce la funzione dell’intellettuale e del tecnico contemporaneo. Una funzione che torna a essere politica nella misura in cui “prende parte” concretamente nei processi sociali e istituzionali, promuove forme di attivismo sociale, affronta assieme al sociale le contraddizioni che lo determinano mettendosi in crisi come “funzionario del consenso”.

Ci auguriamo che questa “impostazione” possa man mano generalizzarsi e ulteriormente articolarsi per abbracciare sempre maggiori ambiti di lavoro e di ricerca. Questa in fondo è l’ambizione più concreta che si dà la rivista e che speriamo contribuisca a farla crescere.*

La Redazione

* Parte dell’editoriale trae spunto da alcune formulazioni contenute nell’introduzione al volume collettivo “Professioni contro la povertà”, a cura di Giulia Dario ed edito dall’Assessorato al Lavoro e Promozione sociale della Regione Campania nel 1984.